Volontari
17Ott/130

Active Citizenship for Education: lotte sociali e diritto all’educazione in Messico

Educazione e cittadinanza attiva: i termini della questione, questione di termini.

Education for Active Citizenship: é il nome del progetto SVE al quale stiamo prendendo parte. E’ un nome indicativo e significativo, che disegna una relazione precisa, né innocente né scontata, tra due dimensioni fondamentali della vita di ognuno: l’educazione, da una parte, e la cittadinanza attiva, dall’altra...

Questi due elementi ritengono, in sé e per sé, un’importanza innegabile all’interno dell’organizzazione del congiunto sociale. Sin dal momento della nascita, interagendo con i membri della nostra famiglia, iniziamo ad essere partecipi del processo educativo, un processo finalizzato a “tirar fuori” (educere) e a sviluppare le nostre capacità mentali e relazionali e che, nel corso degli anni, si sviluppa in maniera sempre più focalizzata, grazie  all’azione (altrettanto efficace, ma meno pervasiva in termini quantitativi, almeno stando alle statistiche globali sul tasso di scolarizzazione e di abbandono scolare) della scuola, altra agenzia basilare di socializzazione.  Il concetto di cittadinanza attiva si riferisce ad un altro processo altrettanto basilare, relativo al diventare un membro della società consapevole dei propri diritti e delle proprie responsabilità nei confronti della collettività e, soprattutto, in grado di esercitare efficacemente la propria azione civica, ossia tanto sociale quanto politica, alla luce di tali diritti e doveri.
In particolare nel contesto europeo, questi due elementi sono sempre più spesso legati l’uno all’altro, e trattati come un insieme inscindibile, tanto da legislatori e policy-makers come da attori non istituzionali. A partire dalle singole scuole, di ogni ordine e grado, in cui l’insegnamento di ciò che una volta si definiva Educazione Civica è stato ultimamente rivisitato e ampliato per abbracciare così le nuove sfide globali che ci troviamo a dover affrontare in quanto “cittadini del mondo”, passando per le numerose ONG, piccole e grandi, che investono risorse e attivano progetti su questo stesso tema, per giungere fino all’Unione Europea, che all’interno del “Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione 2020” ha individuato come uno dei suoi obiettivi principali la promozione della cittadinanza attiva per mezzo dell’istruzione, l’“educazione alla cittadinanza attiva” è diventata un argomento-chiave all’interno del discorso di ciascuno degli attori coinvolti nel cosiddetto processo di governance dell’educazione. L’espressione “educazione alla cittadinanza attiva” definisce oggi un corpus multidisciplinare e interdisciplinare di insegnamenti, che spaziano dall’educazione alla pace e alla risoluzione dei conflitti, alla mediazione interculturale, all’educazione stradale, all’educazione ambientale e allo sviluppo sostenibile. Nonostante l’evidente rischio di estendere fino agli estremi il campo tematico all’interno del quale spazia quest’insegnamento, e così perdere di vista la specificità semantica del termine “cittadinanza”, è altrettanto evidente che l’“educazione alla cittadinanza attiva”, sia nella sua applicazione cosiddetta “trasversale”, ovvero distribuita su diverse materie, sia nella sua configurazione come materia a se’ stante, ha acquisito una propria dignità disciplinare.
Attraverso questo processo di diffusione e istituzionalizzazione, l’ “educazione alla cittadinanza attiva” è giunta, in un certo grado, ad autonomizzarsi ed a reificarsi, il che significa che tende ad acquisire un significato ed una rilevanza propri, offuscando, di riflesso, la relazione tra i due termini costitutivi.

“Education for Active Citizenship” a Città del Messico: tra prassi e normatività

La mia esperienza di vita quotidiana a Città del Messico in generale, e in particolare la sua dimensione lavorativa in quanto volontario presso l’associazione Leonardo Murialdo IAP, mi ha portato invece, anche al di là delle intenzioni stesse del progetto di cui sono parte, a dis-articolare e a problematizzare la suddetta relazione.

Leonardo Murialdo IAP

In questi mesi sono stato impegnato,tra le varie attività, soprattutto come docente volontario all’interno del sistema di Educación Abierta istituito presso l’associazione. Da ormai 15 anni, la Leonardo Murialdo IAP, è impegnata nella missione di “offrire servizi educativi a persone indigenti”. Per raggiungere questo obiettivo, l’associazione offre diverse attività, tra cui l’Educación Complementaria, attraverso un Centro Educativo in cui bambini e adolescenti ottengono l’aiuto degli educatori per svolgere i compiti scolastici e sono impegnati in attività extra-curricolari, sportive, musicali e ricreative, per sviluppare le proprie capacità e i propri interessi. Un altro ambito d’azione dell’associazione è quello dei talleres, corsi professionalizzanti di cucina, estetica, fotografia e informatica, che offrono a giovani e adulti marginalizzati dal mercato del lavoro l’opportunità di un auto-impiego, per ottenere così un lavoro dignitoso. Il sistema di Educación Abierta, comparabile alle scuole serali nostrane, è il terzo pilastro su cui si regge il lavoro di Leonardo Murialdo IAP: si rivolge a tutti coloro che, per diversi motivi, sono stati costretti a interrompere il proprio corso di studi, e, articolandosi su tre livelli, primaria, secundaria e preparatoria (corrispondenti grosso modo alle scuole elementari, medie e superiori) costituisce un’alternativa economica e solidaria a ben più costosi istituti privati ed “esamifici” dalla dubbia qualità educativa.
Essere impegnato come insegnante nei corsi di prepa abierta ha avuto risvolti, per così dire, genealogici. Mi ha portato, di fatto, a risalire alle radici delle due componenti fondamentali del nostro progetto. L’“educazione alla cittadinanza attiva” ha smesso così di essere una buzzword astratta, che corre il rischio di lasciare il tempo che trova, ed è tornata ad essere una pratica educativa fondamentale ed emancipatrice: imparare a “leggere, scrivere e far di conto” per avere le basi su cui fondare una mentalità aperta ed una maniera critica di leggere la realtà, per informarsi in modo consapevole su cosa succede nel mondo (un tema, questo dell’informazione, ancora più importante in un paese in cui la maggior parte del settore della comunicazione è nelle mani dei grandi gruppi finanziari) e per agire in esso con cognizione di causa. L’ “educazione alla cittadinanza attiva” si in-corpora, si fa prassi, si riflette nelle condizioni materiali di vita di tutte quelle persone, ragazze madri, giovani lavoratori e lavoratrici, ragazzi e ragazze di barrio, che grazie ai propri sforzi e al lavoro degli insegnanti, avranno la possibilità di entrare all’università e proseguire nel proprio percorso di educazione formale, o di aspirare a una migliore situazione lavorativa.
Aver osservato in prima persona il contributo, inevitabilmente limitato nei numeri ma non per questo meno significativo, apportato da Leonardo Murialdo IAP e da tante altre associazioni simili, non mi esime tuttavia dal continuare a considerare la relazione tra education e active citizenship, immortalata nel nome del nostro progetto, come ben più complessa e contraddittoria di come potrebbe apparire a prima vista. Tale relazione, infatti, soprattutto se analizzata su grande scala, ritiene un’evidente connotazione normativa, relativa alla sfera dell’“ideale” piuttosto che del “reale”, del “dovrebbe essere” invece che dell’“è”. Implica, infatti, che il buon esito del processo educativo sia un requisito necessario, se non addirittura sufficiente, per formare cittadini che siano in grado di partecipare attivamente nella società: ricevere un’istruzione adeguata dovrebbe portarci a essere membri attivi della comunità civica e politica di cui siamo parte.
La logica che regge tale ipotesi sembrerà ammissibile a molti e addirittura ovvia ad alcuni ed io stesso l’ho fin qui accettata in maniera tacita. Eppure non mancano esempi di illustri filosofi, pedagoghi e sociologi che hanno criticato tale logica. Infatti l’espressione “educazione alla cittadinanza attiva”, tanto per l’intrinseca polisemanticità di ciascuno dei due elementi che compongono la relazione, quanto per la complessità che caratterizza tali processi nel momento di traslarli sul piano della prassi, piuttosto che offrire una risposta definitiva al problema della crisi della partecipazione e della rappresentanza a cui assistiamo oggigiorno, soprattutto nei paesi capitalisti avanzati, pone nuove domande. Quale tipo di istruzione è in grado di incentivare una partecipazione attiva nella sfera del politico e del sociale? Cosa intendiamo davvero per cittadinanza attiva? Quando è che l’educazione smette di essere un progetto emancipatore per l’individuo e la società e si trasforma invece in cinghia di trasmissione del potere, in meccanismo funzionale alla riproduzione dello stato di cose presente, in strumento disciplinare e di controllo, se non in vera e propria arma repressiva, nelle mani dell’egemonia imperante?
Senza prendere seriamente in considerazione tali questioni, “education for active citizenship” è destinata a rimanere meramente una dichiarazione di intenti. Un’ottima dichiarazione d’intenti, sia chiaro, e tutti gli sforzi, miei e di coloro che lavorano presso la Leonardo Murialdo IAP, si sono concentrati sul tentativo di tradurre, nel nostro piccolo, questa asserzione sul piano della pratica. Lungi dal voler trattare nel dettaglio questi aspetti (Antonio Gramsci, don Lorenzo Milani, Paulo Freire, Ivan Illich, tra gli altri, hanno risposto alle suddette domande in maniera ben più articolata e convincente di quanto potrei fare io) voglio limitarmi invece a esplorare a quali condizioni i due elementi costitutivi della relazione oggetto della mia analisi possano essere ricombinati per restituire alla stessa una dimensione positiva più che normativa, ovvero descrittiva del reale, dell’esistente, e non di una situazione ideale che si vorrebbe raggiungere. Se, come detto, l’espressione “education for active citizenship”  è una frase che difficilmente, e solamente con molti distinguo, descrive il macro-contesto attuale, è sufficiente operare una semplice inversione logica, per trovarci improvvisamente a disposizione con una chiave di lettura ben più cogente per dirigere il nostro sguardo sulla realtà educativa attuale in Messico, e non solo: active citizenship for education.

Active Citizenship for Education: movimenti sociali in difesa del diritto all’educazione nelle strade della ciudad monstruo

Questi mesi in Messico sono stati segnati, in una maniera impossibile da ignorare e che non può essere taciuta, da una serie di mobilitazioni sociali sul tema dell’educazione. Migliaia e migliaia di persone si sono attivate, mettendo in gioco, e in strada, i propri corpi, le proprie intelligenze, le proprie volontà per lottare  in difesa dell’educazione pubblica. E’ in questo senso che si può apprezzare la potenza descrittiva (positiva) e, in molti casi, addirittura esplicativa (analitica) dell’espressione “active citizenship for education”: concentra l’attenzione sulla capacità, che il nodo tematico dell’educazione possiede, di promuovere ed incentivare la partecipazione attiva dei cittadini, anche e soprattutto in forme non convenzionali, al processo politico e decisionale e, a livello più ampio, al dibattito pubblico.  Già dai primissimi giorni successivi al mio arrivo nel paese, in Aprile, ho iniziato a comprendere quanto il carattere pubblico, gratuito e laico dell’educazione, considerato uno dei risultati più importanti raggiunti dalla Rivoluzione Messicana, e codificato nella Costituzione del 1917, art. 3°, continui ad essere un tema attuale e una questione di principio profondamente sentita dai cittadini messicani. In molti sono orgogliosi, per esempio, di avere nell’UNAM – Universidad Nacional Autónoma de México, una delle migliori università dell’America Latina, per accedere alla quale gli studenti devono pagare una quota annuale, minima e obbligatoria, dal valore irrisorio: 20 centesimi di Peso [1], così come in molti sono coscienti della fondamentale funzione di empowerment dei settori sociali più deboli  che i maestri, soprattutto nei contesti contadini, all’interno delle cosiddette escuelas normales rurales [2], hanno svolto nel corso degli anni. Questa percezione iniziale dell’importanza che il tema dell’educazione ricopre all’interno del dibattito pubblico in Messico, che giungeva dalle conversazioni con i colleghi e altre persone del posto, è stata rafforzata immediatamente dalle notizie riportate dai mezzi di comunicazione in quei giorni di Aprile, e confermata direttamente da una mia visita all’immensa ciudad universitaria (CU) dell’UNAM nel corso degli eventi che si narrano qui di seguito.Il 19 di Aprile, un gruppo di giovani dal volto coperto, che si auto-identificavano come studenti del CCH – Colegio de Ciencia y Humanidades, prendeva possesso del Rettorato dell’UNAM, occupandolo permanentemente per dodici giorni  e interrompendo il normale svolgimento del lavoro amministrativo degli uffici, per chiedere un dialogo pubblico con le autorità universitarie. Cosa stava succedendo a CU? Cosa spingeva questo gruppuscolo di inconformes ad intraprendere un’azione diretta tanto clamorosa? Sopraffatto al principio dal sensazionalismo dei media ufficiali, espressosi  in un’ondata di articoli e servizi televisivi infarciti di quelli che, con il senno di poi, si sono rivelati essere nient’altro che pregiudizi e stereotipi stigmatizzanti nei confronti di giovani, studenti e no, impegnati e mobilitati nella protesta sociale, mi è costato molto rispondere a questa domanda. Questo scritto rappresenta quindi l’occasione non solo per raccontare a quanti lo leggano un pezzo delle lotte sociali per il diritto all’educazione nel Messico odierno, ma anche l’opportunità per il sottoscritto di approfondire la questione, per capirci, anche se a distanza di mesi, finalmente qualcosa. Le rivendicazioni degli encapuchados erano chiare: richiesta della reintegrazione di cinque studenti espulsi dal CCH Naucalpan per “atti di vandalismo” risalenti ai fatti del Febbraio precedente (nello specifico, un’altra occupazione di due settimane, da parte degli studenti, degli uffici della Coordinación General dei CCH, anch’essi ubicati in CU); garanzia dell’assenza di sanzioni disciplinari da parte del Tribunale Universitario per i giovani che partecipavano alle proteste e, da ultimo, ma non meno importante, un deciso rifiuto della proposta di riforma dei CCH cosiddetta “dei 12 punti”. Per comprendere da dove emergesse tale piattaforma di lotta, si necessitava di una ricostruzione degli eventi precedenti, e del contesto politico all’interno del quale si situava la protesta, ben più profonda  e articolata della superficiale denuncia della “violenza giovanile” gridata dalle pagine dei giornali. Una denuncia funzionale più alla criminalizzazione di qualsiasi forma di dissenso che non alla promozione di un dibattito pubblico aperto e critico sui temi in questione. La toma de la rectoría rappresentava infatti l’apice di una lotta ben più lunga e partecipata, che, fin dagli inizi del 2012, aveva visto coinvolti studenti e docenti dei CCH, così come studenti e professori dell’UNAM, contro la proposta di riforma dei piani di studio dei CCH. Un processo, questo della riforma curricolare, iniziato nel Dicembre del 2011 con la pubblicazione, da parte della Direzione Generale dei CCH, del Diagnóstico institucional para la revisión curricular [3] e concretizzatosi, alcuni mesi più tardi, nell’elaborazione del Documento base para la actualización del plan de estudios: 12 puntos a considerar [4]. Prima di entrare, brevemente, nel merito della proposta di riforma, che si incontra tuttavia in fase di discussione e la cui approvazione dovrebbe finalizzarsi nel mese di Novembre 2013, va detto che non si può intendere l’effettiva portata di un’eventuale applicazione della stessa senza prima comprendere cosa rappresenta il CCH all’interno del panorama educativo messicano. Il CCH, insieme all’Escuela Preparatoria Nacional uno dei due sistemi di bachillerato (livello d’istruzione che precede l’ingresso all’università) istituito dall’UNAM, nasce nel 1971 ed è uno dei frutti delle lotte studentesche del ’68 messicano. Dal momento della sua istituzione fino ad oggi, nonostante le varie riforme educative di stampo neoliberista che hanno cercato di snaturarne il carattere, il CCH è sempre stato un progetto educativo caratterizzato da un approccio altamente critico e umanistico. Un progetto educativo “disfunzionale agli interessi egemonici delle classi dominanti” [5] come rilevava nel 1976 il sociologo Pablo González Casanova, già rettore dell’UNAM dal 1970 al 1972 e uno dei maggiori propositori sia del CCH sia del Sistema de Universidad Abierta dell’UNAM (corsi di laurea dalle tempistiche più flessibili, organizzati nei fine settimana, appositamente per rispondere alla esigenze degli studenti-lavoratori), due progetti che, nelle sue intenzioni, erano mirati a promuovere nella maniera più ampia possibile una coscienza critica, non solo per interpretare differentemente la realtà ma per cambiarla, creando finalmente “un collegamento tra studenti e lavoratori, un’unione e un avvicinamento, che si è cercato di impedire con ogni mezzo” [5]. Diego Rivera
E’ solo alla luce di questo contesto storico che si può comprendere perché la riforma dei 12 punti stia incontrando tanta resistenza da parte di studenti e professori. Prima di arrivare ai principi ispiratori alla base della riforma, e di conseguenza alle radici della protesta, vale la pena entrare brevemente nel merito della riforma curricolare. In particolare sono due le proposte che hanno provocato maggiori critiche: estendere l’insegnamento dell’Inglese da 4 a 6 semestri e potenziare l’offerta dell’apprendimento a distanza, di corsi online. Quelle che possono apparire come proposte di buon senso e genuinamente modernizzatrici, perdono molta della propria pertinenza se inserite nel contesto reale della situazione dell’educazione in Messico.  Che senso ha potenziare l’insegnamento di una lingua straniera, per quanto di fondamentale importanza come l’Inglese, quando, secondo i risultati del Programa para la Evaluación Internacional de los Estudiantes e della Evaluación Nacional del Logro Académico en Centros Escolares, il 50% circa degli studenti messicani possiede una capacità di lettura dello Spagnolo di livello insufficiente o a mala pena elementare? Perché, piuttosto, non approfondire, come proposto dagli studenti e dai membri della comunità accademica contrari alla riforma, l’insegnamento e la comprensione della lingua materna, che tanta importanza ricopre nella formazione e sviluppo dei processi mentali di ogni persona? E perché investire energie e risorse nella creazione di una piattaforma di apprendimento telematica che sarà inevitabilmente condannata ad essere utilizzata da pochissimi studenti, in un contesto, come quello messicano, caratterizzato da una marcata disuguaglianza socio-economica e da un profondo digital divide [6]? Non sarebbe più sensato utilizzare queste ingenti risorse per migliorare le infrastrutture e gli strumenti basilari di insegnamento – aule, lavagne, libri di testo [7] – o le stesse condizioni lavorative e salariali dei docenti che, come denunciato da più parti, sono evidentemente inadeguate a far fronte alle esigenze di un’istruzione di qualità?
Al di là di tali questioni di merito, vanno segnalate anche gravi carenze nel metodo seguito dalla Direzione Generale dei CCH, che ha sviluppato la propria proposta di riforma attraverso un processo poco inclusivo, per dirla con un eufemismo, in cui ha dimostrato poca sensibilità alle istanze di partecipazione portate avanti dagli studenti [8].
Detto ciò, la ragione più profonda che spiega l’emergere dell’opposizione alla proposta dei 12 punti, un’opposizione radicale seppur forse non tanto generalizzata come è lecito immaginare fosse nelle intenzioni degli inconformes, sta nella ratio che informa l’intero progetto. Come affermato dagli stessi promotori della riforma, la finalità principale dell’aggiornamento dei piani di studio del CCH è obbedire ai “requisiti obbligatori richiesti dal mercato del lavoro”, e non venire incontro alle esigenze della società in senso più ampio. La riforma risponde cioè ai dictámenes di organismi internazionali come l’OCSE e la Banca Mondiale in materia di educazione. E’ parte di quel processo dal carattere irriducibilmente efficientista, produttivista ed utilitarista di tecnicizzazione dell’educazione e standardizzazione della valutazione delle performances di insegnanti e studenti,  in atto ormai da anni, che va passo passo con quello, altrettanto pervasivo, di flessibilizzazione della forza lavoro docente [9].
E’ la stessa ragione profonda di un’altra ondata di proteste sociali organizzatesi intorno al nodo dell’educazione che ha travolto, è il caso di dirlo, il Messico negli ultimi mesi: la lotta degli insegnanti contro la riforma educativa.  La protesta dei maestri e professori inizia l’8 Maggio, con un presidio permanente nelle strade del centro storico di Città del Messico e raggiunge il culmine nelle settimane successive al 19 Agosto, giorno in cui il presidio si sposta nel cuore della città, nello Zocalo, la piazza principale, e, forte dell’arrivo di insegnanti da tutto il paese (in particolare dallo stato di Oaxaca e, in misura minore, dal Chiapas) giunge a superare i 40.000 partecipanti. Per quasi un mese migliaia e migliaia di docenti, alcuni accompagnati dalle proprie famiglie, hanno vissuto la propria quotidianità in piazza, mangiando, dormendo, lavandosi e relazionandosi in una mega-tendopoli, grazie anche alla solidarietà di studenti, lavoratori e cittadini comuni della capitale. Soprattutto hanno organizzato, giorno dopo giorno, assemblee di informazione sopra le proprie ragioni per opporsi alla riforma educativa, hanno posto blocchi stradali in città e occupato/liberato le autostrade di tutto il paese (prendendo possesso dei caselli autostradali e rendendo gratuito l’accesso agli automobilisti, chiedendo però in cambio un contributo economico alla lotta), hanno occupato l’aeroporto internazionale “Benito Juarez”, hanno marciato e manifestato in massa in 26 dei 31 stati che conformano la  Repubblica Federale, hanno scioperato, rimandando di mesi e mesi l’inizio dell’anno scolastico in migliaia di scuole di tutto il paese, hanno occupato le sedi delle maggiori emittenti radiotelevisive, hanno portato avanti negoziazioni con i parlamentari e con il governo.
Si tratta di una mobilitazione senza precedenti nella storia del paese, e offrirne una cronaca dettagliata, così come presentare un’analisi approfondita della riforma, va al di là dello scopo di questo post. Ciò che mi interessa mettere in luce è come, sia le proteste degli studenti dei CCH sia il movimento magisterial, possano essere letti come momenti distinti ma interconnessi di uno stesso continuum lungo il quale si innestano, a varie scale, i conflitti sociali in difesa dell’educazione come bene comune.
Ancora una volta, al fine di comprendere davvero qual’è la posta in gioco, i racconti riportati dalle televisioni e da molti giornali, impegnati come sono a fare a gara per difendere e diffondere l’agenda del governo PRI-ista di Peña Nieto, si sono rivelati di ben poco aiuto. Il movimento dei maestri è stato, e continua ad essere, oggetto di una dura campagna diffamatoria. La classe docente viene dipinta come una casta pigra e corrotta, impegnata a difendere i propri privilegi, anche in maniera violenta e senza curarsi dei disagi provocati ai cittadini comuni, opponendosi all’azione riformatrice e modernizzatrice del governo federale. Va chiarito che l’accusa di corruzione nei confronti dei sindacati degli insegnanti è tutt’altro che infondata. La corruzione in Messico è un fenomeno diffusissimo, e i sindacati maggiori,  quelli organizzati secondo un modello corporativista e clientelare, quelli che agiscono come cinghia di trasmissione dell’azione di governo e strumento di controllo delle classi lavoratrici, piuttosto che come difensori dei loro diritti (definiti spregiativamente charros), sono tra i principali attori coinvolti in questo fenomeno [10]. In molti però fingono di ignorare che il movimento di protesta contro la riforma educativa è organizzato da una corrente sindacale particolare e diversa dal resto: la CNTE – Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación. La CNTE è una corrente d’opposizione interna al sindacato ufficiale, SNTE – Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación, da sempre allineato sulle posizioni del governo e anche in questo caso favorevole alla riforma. La CNTE nasce nel 1979 come movimento di base, con l’obiettivo dichiarato di democratizzare e rendere più trasparente e meno corrotta l’azione del SNTE, affinché si trasformi in un’organizzazione davvero al servizio delle necessità delle masse lavoratrici, e non asservita agli interessi dei gruppi di potere dominanti. La CNTE è, per intenderci, la stessa organizzazione sindacale che animò nel 2006 quella grande esperienza di partecipazione e democrazia dal basso che fu la APPO – Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca, repressa violentemente dall’allora presidente Vicente Fox.
Ma in cosa consiste la riforma educativa? La cosiddetta riforma educativa è in realtà un pacchetto di tre proposte di legge: la Ley General de Educación, la Ley del Instituto Nacional para la Evaluación de la Educación e la Ley General del Servicio Profesional Docente. Senza entrare nel dettaglio dei tre progetti di legge, vorrei menzionare brevemente due dei principali punti intorno ai quali si articola il conflitto sociale in corso: l’introduzione di un sistema di valutazione standardizzata del lavoro degli insegnanti e la modifica delle loro condizioni contrattuali.
La valutazione obbligatoria dei docenti è, nelle intenzioni e dichiarazioni del governo, una maniera per assicurare un’educazione di qualità e per introdurre una chiara meritocrazia all’interno della classe docente. I maestri inconformes, al contrario, non si oppongono alla valutazione in sé, ma alle modalità in cui essa è stata disegnata. Mettono in luce come l’idea stessa di una valutazione standardizzata sia assurda in un paese profondamente diseguale come è il Messico, e che, a causa di una mancanza di contestualizzazione, si trasformerebbe in un ulteriore strumento di esclusione, piuttosto che di inclusione, dei settori sociali che già si trovano ai margini della vita sociale e politica, in particolare le numerosissime comunità indigene del paese. Infatti sono proprio i maestri provenienti da stati in cui la presenza indigena è particolarmente forte ad evidenziare come l’imposizione della valutazione standardizzata si inserisce, a livello più ampio, in una sistematica discriminazione delle istituzioni nei confronti delle popolazioni native e della loro differenza culturale. Propongono quindi che tanto i piani di studio quanto i processi di valutazione degli insegnanti e degli alunni prendano in considerazione le specificità linguistiche, culturali e strutturali di ogni regione. [11]
L’altro punto di attrito tra istituzioni governative e la CNTE riguarda i cambi alla situazione contrattuale dei docenti, e rappresenta un punto d’importanza fondamentale se si tiene in conto come, secondo molti osservatori, più che di una riforma educativa si tratta di una riforma del lavoro mascherata. Quelle che sono modifiche introdotte nel nome dell’efficienza e della produttività, sembrano essere più che altro misure che, applicandosi in maniera retroattiva, aumenteranno la precarietà delle condizioni lavorative degli insegnanti e cancelleranno diritti che sembravano ormai acquisiti. La relazione che lega i maestri al loro datore di lavoro (che si articola lungo le dimensioni della retribuzione, della promozione a nuovi incarichi, del riconoscimento dello status di insegnante e di permanenza), viene snaturata, mutando da un rapporto di lavoro a semplice nesso amministrativo. Ciò significa che la relazione tra maestri e Secretaría de Educación Pública si individualizza e la posizione dei primi si indebolisce a favore di un aumento dei poteri della seconda: le quattro dimensioni di cui sopra vengono escluse dalla contrattazione collettiva e si elimina la possibilità per qualsiasi sindacato o organizzazione di insegnanti di intervenire in qualsiasi processo decisionale relativo a questi quattro aspetti. Coerentemente con la trasformazione degli insegnanti da “lavoratori” a “soggetti amministrativi”, saranno i tribunali amministrativi e non più i tribunali del lavoro ad essere competenti in caso di conflitti sui quattro punti già citati. Inoltre si introducono nuove figure contrattuali a tempo determinato, si facilita il licenziamento, che potrà essere unilaterale e senza diritto di replica da parte del lavoratore (diritto invece garantito dalla legislazione vigente in tema di lavoro) e si cancella il diritto ad essere reintegrati sul posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa [12].
Si tratta insomma di una riforma di stampo chiaramente, anche se paradossalmente, neoliberista e che assoggetta sempre più il settore educativo alle leggi della domanda e dell’offerta di mercato, apportando un ulteriore attacco alle funzioni democratiche e di giustizia sociale della scuola e che manca di agire sulle cause profonde della crisi educativa in Messico, prima su tutte l’insostenibile disuguaglianza socio-economica tra settori privilegiati della società e classi sociali subalterne.

Conclusioni: prassi politiche emancipatrici ed educazione come bene comune

La maniera più ovvia di concludere questa mia disamina sarebbe quella di analizzare l’efficacia dei movimenti sociali qui considerati: sono riusciti ad ottenere quanto volevano? La risposta a questa domanda è in gran parte negativa. Se è ancora presto per giudicare i risultati ottenuti dalle proteste degli studenti dei CCH (la riforma curricolare si finalizzerà, come già detto, solo in Novembre; tutto comunque lascia presagire che sarà approvata, vedremo in che termini) è certo che il movimento dei maestri non è riuscito a detenere l’avanzare della riforma educativa, che ormai è stata approvata in tutte le sedi legislative, anche se con una fretta a dir poco sospetta, e verrà quindi implementata.
Eppure dare una valutazione così monodimensionale di fenomeni sociali tanto complessi come i movimenti di protesta rappresenta un grave errore di prospettiva. Equivale ad applicare un criterio di lettura basato esclusivamente su una razionalità strumentale, legata ad una logica individualistica e di profitto, che è esattamente ciò a cui tali lotte si oppongono. La mia opinione è invece che le ricadute sulla società prodotte dai movimenti possano essere apprezzate solo basandosi su altri metri di giudizio, secondo quella che Jurgen Habermas definirebbe una “razionalità comunicativa”, fondata sull’intersoggettività e sul perseguimento del bene comune. Assumendo questo punto di vista, ciò che prima appariva come una sconfitta può essere letto invece come un processo ben più fertile e produttivo, dai risvolti democratizzanti ed emancipatori. Comprendo come questo mio giudizio possa apparire paradossale, tenendo in conto come i movimenti considerati si sono avvalsi in numerose occasioni di tattiche di protesta “non-convenzionali” e basate sull’azione diretta, un metodo spesso associato, in maniera a mio parere superficiale, alla violenza, ossia all’opposto della democrazia. Eppure ciò che i movimenti degli studenti e dei professori messicani hanno raggiunto in quest’anno di lotte è innegabile, ed è stato possibile proprio grazie alle occupazioni, alle assemblee informative, alle consultazioni interne per decidere il da farsi. Sono stati capaci di creare, all’interno del tessuto urbano del Distrito Federal e in tutto il paese, nuovi e vibranti spazi di dialogo, dibattito e partecipazione, essenziali per una società davvero democratica. Sono stati capaci di coinvolgere giovani, lavoratori, cittadini comuni che fino ad ora erano rimasti ai margini della vita sociale e politica. In particolare il movimento di protesta contro la riforma educativa, dopo mesi e mesi di lotte, conta ormai sull’appoggio e sulla partecipazione attiva anche dei genitori, degli studenti e di altri settori della società, e non solo degli insegnanti. I maestri sono stati sgomberati violentemente dalla piazza dello Zocalo, ma già pianificano tattiche di disobbedienza alla riforma e mantengono un presidio permanente presso il Monumento a la Revolución della capitale. La mobilitazione continua e il dibattito pubblico sul futuro dell’educazione in Messico prosegue, più vivo che mai. E’ questa l’efficacia dei movimenti che lottano per i beni comuni, e per il bene comune, difendendo valori universali – ma non omogeneizzanti – nell’unica maniera possibile, ossia a partire dai processi particolari. Ed è questo il potenziale che possiede l’educazione, intesa proprio come bene comune, per formare una cittadinanza realmente attiva.

Note e riferimenti web

[1] Tale ammontare è rimasto invariato, nonostante il tentativo delle autorità accademiche di aumentarlo, grazie alla lotta degli studenti che, per quasi un anno (tra il 1999 e il 2000) hanno protestato, scioperato e bloccato qualsiasi attività accademica dell’UNAM.

[2] http://periodicoelcomienzo.blogspot.mx/2012/02/escuelas-para-pobres-las-normales.html

[3] http://www.cch.unam.mx/revcurricular

[4] http://www.cch.unam.mx/sites/default/files/Docuemento_base.pdf‎

[5] http://contralinea.info/archivo-revista/index.php/2013/05/30/colegios-de-ciencias-humanidades-desmantelados/

[6] E’ certo che la diffusione di computer e connessione internet cresce, inesorabilmente, anche in Messico, ma a tassi di incremento ben più bassi rispetto ad altri paesi. Secondo i dati pubblicati dal Foro Economico Mondiale nel suo “The Global Information Technology Report 2012”, infatti il Messico occupava l’anno scorso il 76° posto (su 142 paesi censiti) nella classifica basata sull’Indice di Disponibilità della Connessione a Internet, a differenza del 45° posto (su 122) che occupava sei anni fa. Inoltre, dati OCSE (PISA, 2009) affermano che in Messico meno della metà degli studenti di 15 anni di etá hanno a disposizione un computer e accesso alla rete delle reti. Per i dati qui citati cfr. http://www.ses.unam.mx/publicaciones/articulos.php?proceso=visualiza&idart=1745

[7] E’ di poche settimane fa la notizia, in certo grado aneddotica ma nondimeno indicativa, che le 235 milioni di copie dei libri di testo che quest’anno la Secretaría de Educación Pública ha stampato e distribuito gratuitamente a tutti gli studenti delle scuole elementari, pubbliche e private, contengono ben 117 errori, tanto di ortografia quanto di contenuto.

[8] http://www.ses.unam.mx/publicaciones/articulos.php?proceso=visualiza&idart=1741

[9] http://www.ses.unam.mx/publicaciones/articulos.php?proceso=visualiza&idart=1772

[10] Basti citare, a riguardo, il recente caso di Esther Gordillo, Segretaria Generale prima e Presidente poi del SNTE sin dal 1989, che nel Febbraio 2013 è stata arrestata per gestione di fondi di provenienza illecita e malversazione, per un ammontare stimato di poco meno di 150 milioni di euro.

[11] http://desinformemonos.org/2013/05/la-reforma-educativa-representa-mayor-exclusion-para-los-pueblos-indigenas/

[12] http://www.m-x.com.mx/2013-09-01/32-razones-que-hacen-inaceptable-la-ley-general-del-servicio-profesional-docente-por-manuel-fuentes/

Fabrizio Trocchia, Volontario in Messico con Servizio Volontario Europeo

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