Volontari
9Mar/170

Dal villaggio alla baraccopoli: storie di servizio civile in Kenya

siong 1Dopo aver vissuto circa quattro mesi a Siongiroi, un piccolo villaggio di capanne in Kenya, grazie alla nostra organizzazione abbiamo potuto scoprire un'altra parte di questo bellissimo paese. L'occasione è stata la missione di monitoraggio del Direttore e della nostra responsabile paese in Italia. Durante il viaggio ci siamo resi conto di quanto ci eravamo già affezionati al nostro villaggio, anche se effettivamente i disagi (per non chiamarla povertà) non mancano. Non è il tipo di povertà che si trova nel cuore di una persona, che banalmente si può definire infelicità, ma semplicemente quella causata dalla mancanza di beni primari come acqua, cibo, vestiti.... Anche a fronte di tutti questi problemi, Siongiroi ha una ricchezza di valore inestimabile: il sorriso che non si spegne mai sui volti dei bambini.

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14Feb/170

JAM Portogallo – L’esperienza del gruppo a Lisboa!

La nostra avventura in Portogallo è iniziata con la sensazione che si prova guardando l’oceano da Cabo da Roca: la certezza della terra, del già vissuto e del conosciuto alle nostre spalle, il nostro sguardo rivolto verso l’oceano e verso l’orizzonte vasto e sconosciuto. Come al tempo delle grandi scoperte, avevamo in mano una carta tracciata solo in parte e con grandi spazi bianchi da riempire.

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14Feb/170

JAM Barcellona – Tirocinio in ambito ambientale

Mi chiamo Alessia, ho 29 anni e ho partecipato al progetto Jam - Job Abroad Mobility di Engim Piemonte. Quando ho ricevuto la notizia di essere stata scelta come jammista sono stata fin da subito contenta della possibilità di poter trascorrere un periodo di tirocinio all'estero, per di più nella splendida città di Barcellona.

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20Ott/160

Tre facili mantra per affrontare al meglio un anno da cooperanti e uscirne tutto sommato bene

Vivere all’estero non è, di per sè, qualcosa di realmente difficile. Solitamente si risente più della diversa alimentazione, a cui siamo culturalmente portati a legare i nostri affetti ed i nostri ricordi, che delle differenze linguistiche e culturali. Farlo però all’interno di un’esperienza di cooperazione allo sviluppo, e soprattutto farlo con il servizio civile, porta con sè una serie di problematiche e difficoltà speficiche ed insolite a cui pochi volontari in procinto di partire sono “pronti” (a meno di non aver già un bel bagaglio di esperienze pregresse).

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Questo accade principalmente per due ragioni. In primo luogo, il paese/città/quartiere in cui il volontario si trova a vivere è di solito un’area del mondo che si definerebbe “povera”, o “problematica”. In cui cioè mancano in parte o del tutto alcune delle comodità a cui un ragazzo bianco europeo, nato durante gli anni del boom economico e poi laureatosi a pieni voti non ha mai, probabilmente, dovuto rinunciare. Di queste solo alcune, le più banali, sono di natura materiale. La maggior parte delle rinunce che si dovrà fare avrà a che vedere con la sfera dei servizi e delle libertà personali, comportando perdite talvolta consistenti sui propri standard in materia di facilità di spostamento, accesso alle cure mediche, gestione del tempo libero, etc.

Ovviamente, la quantità e la qualità delle rinunce da dover effettuare sarà diversa a seconda del Paese e della città di destinazione. Ciò nonostante, potrebbe non essere semplice abituarsi a vivere secondo standard diversi, ma che verosimilmente sono quelli del 99% dell’umanità.

Altre difficoltà avranno a che fare la natura del servizio che il volontario sarà chiamato a svolgere. Se a volte è difficile “inquadrare” dall’Italia la figura ed i compiti del cooperante, questo potrebbe diventare impossibile una volta giunti sul posto. Lavorare in contesti in cui le contingenze quotidiane sono spesso le uniche che si riesce ad affrontare significa infatti anche doversi muovere nell’improvvisazione e nella non chiarezza, nel disordine e nell’ambiguità.

Pensando dunque ai volontari che partiranno per esperienze simili pensato di scrivere i tre mantra che mi sono stati di aiuto durante il mio anno di servizio civile. Non si tratta di regole fisse e ve ne saranno sicuramente altri. Nel dubbio però vi consiglio di scrivervele su un foglio da tenere sotto al letto.

1. Prendersi il proprio tempo E’ vero, un anno passa in fretta, ma non in fretta. I primi 3-4 mesi serviranno per capire dove si è e con chi si ha a che fare, cosa si aspettano che facciamo e quali sono i rapporti di potere e mettere a punto la lingua con qualche modismo locale che, sorpresa, aprirà più porte di quante si potrebbe pensare. Sperimentare è la parola d’ordine e prendersi un po’ di più tempo all’inizio potrebbe rivelarsi fondamentale per ottimizzare il lavoro nei mesi che seguiranno.

2. Non dipende tutto da noi Il progetto esisteva prima del nostro arrivo ed esisterà (ci si augura) anche dopo che ce ne saremo andati. L’apporto del cooperante sarà un mattoncino in più in una grande torre di djenga, in cui la cosa che più conta è trovare il punto strategicamente più importante per stabilizzare la costruzione. Diversi fattori potrebbero tentare il cooperante di farsi carico di più problemi di quanti sarebbe lecito aspettarsi, correndo così il rischio di sovraccaricarsi di responsabilità, aspettative e stress. Un’oculata gestione delle energie è quanto mai necessaria.

3. Possiamo fare molto più di quanto crediamo Speculare al matra precedente, ci ricorda di non sminuire le proprie capacità né le possibilità di dare un contributo piccolo ma decisivo. Statisticamente, è probabile affrontare un momento di crisi in cui il progetto sembrerà una chimera e la vostra presenza sul luogo del tutto superflua o perfino non gradita. Prendere coscienza che tali situazioni non sono delle eccezioni nel vasto e complesso mondo della cooperazione, quanto piuttosto la normalità, propizierà un cambio di prospettiva necessario per trovare il proprio ambito in cui contribuire. Le doti di resilienza saranno messe a dura prova, ma ne sarà valsa la pena.

Marco Dalla Stella, Volontario in Servizio Civile in Messico

14Giu/160

La Fiera del Messico

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Le “bandas” in strada suonano così vicine le une alle altre che è impossibile distinguerne la musica.

 

“¡Ya te va a tocar la feria!” (presto ti toccherà la fiera) è una delle frasi che, da quando sono ad Aguascalientes, mi sono sentito ripetere più spesso. La persona che la pronuncia solitamente lo fa con veemenza, travolgendomi con il suo entusiasmo. Di solito la conversazione si conclude con pacche sulle spalle e inviti a bere assieme. “Puro desmadre, güey”: sarà il caos più totale.

La feria in questione è quella di San Marcos, un santo particolarmente sentito anche dalle mie parti. Il leone alato dell’evangelista è infatti il simbolo della mia regione e dell’Università in cui mi sono laureato, nel lontano (?) 2013. A questo aggiungiamo che dall’evangelista sepolto a Venezia prendo il nome, e che nella città e nella via in cui ho vissuto negli ultimi due anni il 25 aprile, giorno dedicato al santo, ha un sapore del tutto speciale.  Mi sono dunque avvicinato all’importante evento con un misto di fatalismo e rassegnazione, pensando che dopotutto non potrà essere una festa molto diversa di altre rassegne popolari a cui ho assistito. Mi sbagliavo.

2Mag/160

Se un pomeriggio di primavera un pagliaccio… Un’esplosione di colori nella scuola rurale di Ouerjijen, Médenine.

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Che succede se un giorno all’improvviso un pagliaccio entra in una scuola? Una scuola “rurale”, come chiamano qui le scuole dei villaggi che circondano la città di Médenine, scuole semplici, piccole, con pochi strumenti e poche risorse. Scuole i cui bambini non sono probabilmente mai usciti dal villaggio, provenienti da famiglie che vivono senza troppi mezzi, bambini che giocano per strada, anche con la calura estiva che inizia a farsi sentire, e che non hanno troppa confidenza con computer e smartphone. Allora, cosa succede se un giorno un pagliaccio entra all’improvviso in una di queste scuole? Semplice: una rivoluzione, una festa, un’allegria incontrollabile! Uno stupore e una gioia così genuini negli occhi dei bambini, quando, di soppiatto, questo energumeno dai vestiti stravaganti e la faccia pitturata entra in classe..

13Apr/160

ACQUA: BENE PRIMARIO PER L’INTERA UMANITA’

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Siamo fatti da circa il 70% di acqua ed il nostro fabbisogno giornaliero si aggira intorno a 2 litri al giorno che moltiplicato per 10.000 abitanti quanti litri fa? E soltanto per bere, non consideriamo il fabbisogno legato alle altre fondamentali necessita'.

A Siongiroi l'acqua non c'è, è poca, è acqua piovana...è sporca. I bambini della scuola ogni giorno, nel pomeriggio intorno alle 16.00 si recano ad una pozza dove anche mucche ed asini si serviranno per bere ed urinare, e con i loro bidoni di plastica gialla prendono la loro acqua e la portano al campo dove la utilizzeranno per lavarsi e per lavare i propri vestiti. L'acqua ha un colore marrone, eppure lavano. L'acqua ha un odore nauseante, eppure non lo sentono. L'acqua, bene primario per un'umanita' intera qui, in una natura che esplode con tutta la sua forza, sembra un miraggio lontano. Dei ricchi e' privilegio averla pulita, mentre centinaia di bambini la condividono con mucche ed asini e si precipitano sotto la grondaia di un tetto a raccoglierla quando piove nel loro bicchiere, per dissetarsi un po'...

L'acqua che scorre dal rubinetto di casa a giorni alterni, di un colore giallino misto ad un marrone a tratti scuro come la mia pelle che sembra essersi adattata ad un odore nuovo. Un odore di cui sono ormai impregnati i vestiti che lavo nella speranza di ripulirgli via la polvere ma con la stessa acqua che veramente pulita forse qui mai ci sara'...cosciente che al ritorno a casa mi sentiro' una straniera in mezzo a profumi troppo forti per le mie narici, osservo questa nuova realta' con occhi spalancati come una finestra che si apre su un orizzonte nuovo diventato ormai quasi normale.

Daniela Romano, Volontaria in Kenya con il Servizio Civile

12Apr/160

La bellezza, linguaggio universale.

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Talvolta, da dei fatti insignificanti o apparentemente privi di grande profondita’, nascono dei pensieri che sorprendono.

Non avendo grandi competenze musicali o sportive, o almeno non abbastanza da insegnarle nei mini corsi che teniamo presso il centro Murialdo ai ragazzi del quartiere La Ladrilleras, ho pensato di tenere occupati e divertire i bambini e ragazzi con qualche attivita’ manuale: lavoretti, semplici opere artistiche e cosi’ via.

Ho deciso di finalizzare tutti questi lavoretti alle aule del centro. Sin dai primi giorni, mi aveva colpito quanto fossero spoglie e tristi: qualche foglio in bianco e nero penzolante dalla parete, scritte con numerose lettere mancanti, in generale grigiore e trascuratezza. Sicuramente non mi aspettavo pavimenti lucidi e marmi, ma ho pensato: “Io, in un posto cosi, verrei volentieri a lavorare?”

25Feb/160

Compendio breve di alcune cose che ho imparato da settembre ad oggi

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Buona terra, buona gente, cieli chiari, acqua chiara

Aguascalientes è una città di circa un milione di abitanti giusto nel mezzo della Repubblica messicana. Si potrebbe addirittura affermare che se tracciassimo due linee immaginarie in grado di collegare diagonalmente i quattro angoli del paese, nel punto di intersezione vi troveremmo proprio Aguascalientes, con la sua catedral le sue peleas de gallos e gli ubriachi della feria di San Marco.

Capitale dell’omonimo stato (fra i meno estesi della Repubblica), Aguascalientes è conosciuta anche come “terra della gente buona”. Un soprannome, questo, inciso a chiare lettere anche sullo stemma cittadino bona terra, bona gens, clarum cielum, aqua clara.

Aguascalientes intende farsi riconoscere per la sua popolazione affabile ed accogliente, per il suo terreno fertile, per i suoi cieli privi di nubi e per le acque che sgorgano dalle numerose sorgenti termali. I tutto sommato bassi indici di violenza, in anni in cui nella gran parte del Messico infuriava la violenza narcos, le hanno peraltro valso l’appellativo di città del no pasa nada. Non accade nulla.

25Gen/160

L’inizio di un viaggio verso sud: celebrazioni per il nuovo anno Amazigh in Tunisia

Tamezret, anno 2966. Suona come il preludio di un film di fantascienza, ed il paesaggio si presterebbe bene a farne da location. Siamo in un villaggio abbarbicato tra le crespe e semidesertiche colline della catena di Matmata, famose per aver dato i natali al leggendario Luke Skywalker, protagonista di Star Wars: il pianeta Tatooine.

Ma non siamo qui per rendere omaggio a George Lucas, bensì per assistere ad un evento che celebra l’identità dei popoli che abitano queste terre da millenni, i berberi. Il 16 gennaio si è festeggiato a Tamezret l’entrata nell’anno Amazigh 2966. Nonostante la presenza di popolazioni di etnia berbera in Nord Africa risalga a parecchi millenni prima di Cristo, è il 950 a.C. la data scelta come anno zero della storia berbera, anno in cui per la per prima volta un berbero diventa faraone di Egitto, dando inizio alla dinastia Shenshonq. Il computo di questo calendario è una convenzione moderna adottata dell’Accademia Berbera di Parigi negli anni ’60, ma col tempo condivisa dai sostenitori del risveglio dell’identità Amazigh.

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