Day Zero – Il lungo viaggio
Sveglia ore 3.45 (di notte) dopo aver dormito quasi niente causa naso chiusissimo e ansia pre-partenza per un viaggio di un anno in un posto lontanissimo che probabilmente mi cambierà la vita, o forse no, ma io ci spero.
Faccio tutto in automatico, mi vesto, mi pettino, chiudo lo zaino, prendo un caffè notturno che dovrebbe svegliarmi ma di cui non avrei neanche bisogno, che va giù solo per abitudine e via, chiudo la porta di casa senza guardarmi indietro, senza salutare la mia stanza, la cucina e tutti gli angoli che negli ultimi mesi mi avevano vista lì come non accadeva da anni...
Mamma, papà, zio e zia – anche loro ci tenevano ad accompagnarmi in aeroporto – e si parte. Fuori ci sono 2°C, la strada e quasi gelata, una temperatura che al momento faccio fatica a concepire e ricordare, mio padre guida piano per prudenza e io guardo ogni momento l’orologio facendo il conto del tempo che ci vuole per paura di arrivare tardi e dover fare poi tutto di corsa. Aeroporto, check-in, scala mobile verso la zona dei controlli di sicurezza, dove genitori e parenti devono fermarsi e io proseguire. Saluti veloci, zii per primi, poi papà, mamma per ultima. Non do il tempo a nessuno di commuoversi, raccomandazioni reciproche e si va.
L’aereo parte alle 7.45, un orario perfetto per vedere le coste della mia Sicilia dall’alto che sembrano disegnate, così definite, rocciose, sicure. In aereo vorrei dormire ma non riesco, ho un’adrenalina in corpo che non mi fa stare ferma. Arrivo a Roma, ritiro i bagagli, primo step superato. Sono solo le nove del mattino, l’aereo successivo è alle 16.40, mi chiedo come passeranno queste ore in stile The Terminal. Ma almeno non sono sola. Con Nicolò andiamo a fare colazione e ci piazziamo su delle scomode sedie da aeroporto che mi sono sempre chiesta perché non le facciano più morbide e lì, col nostro carrellone pieno di bagagli, iniziamo a trovare modi per passare il tempo, addormentandoci ogni tanto senza soluzione di continuità.
Accanto a noi un fricchettone coi capelli bianchi e una valigia piena di adesivi presi da chissà quante parti del mondo e io penso a quanto sarebbe bello viaggiare per tutta la vita facendo quello che amo, sentirmi libera e leggera e attaccare ad ogni tappa un nuovo adesivo alla mia valigia e un nuovo tassello alla mia vita. Non so come ma è quasi l’una, arriva Elena, decidiamo di controllare se sia già possibile fare il check-in e troviamo già una fila lunghissima davanti allo sportello della Royal air Marocco che va a Casablanca, dove abbiamo lo scalo. Abbiamo fame ma è meglio mettersi in coda e allora inizio a dar fondo alla mia scorta di biscotti. Tanta gente di colore, piena di valigie, pochi bianchi, primo assaggio della strana sensazione di minoranza ribaltata che qui adesso è la normalità. La hostess allo sportello ci dà i biglietti e ci chiede cosa andiamo a fare a Bissau: -Un progetto di cooperazione. –Medici? -No, volontari. Inizio a sentire un senso di identità che con un pizzico di orgoglio si avvicina al senso della mia identità ideale: oggi come poche volte nella vita sto facendo una cosa che veramente voglio e che desideravo da tanto. Mi sento pronta, mi sento me stessa, voglio buttarmici dentro e sentirmi piena.
Altro controllo di sicurezza, altro controllo passaporti. Il tizio allo sportello vede il foglio giallo attaccato al mio passaporto e mi chiede: è per il cane? –No, per me. Non so se ridere o scioccarmi un po’. Gli spiego che è il tesserino che attesta che ho fatto il vaccino contro la febbre gialla, sto andando a Bissau e lì è obbligatorio. –Ah, non vai a Casablanca? –No, faccio solo scalo. Ok, non posso star lì a dargli altre spiegazioni, la coda è lunga, sorrido e proseguo. Fiumicino è un labirinto tanto che per arrivare al terminal giusto si prende una sorta di metro, una cosa che non avevo mai visto. Nell’attesa dell’imbarco mando gli ultimi messaggi gratuiti ad amici e parenti, ho il tempo di rilassarmi un attimo su una sdraio con vista sulla pista trovata lì davanti all’imbarco e di osservare un musulmano che prega a piedi nudi su un tappeto orientato verso la Mecca, mi chiedo come facciano a sapere sempre come posizionarsi, se usano una bussola o vanno d’istinto e ammiro la loro costanza nel farlo sempre e dovunque. Finalmente si apre l’imbarco, mi sento un po’ emozionata e dispenso sorrisi alle hostess e a chiunque mi capiti a tiro. Salgo il primo gradino, respiro l’aria frizzante di Roma a gennaio, stacco il piede dall’Italia e la saluto.
Il volo parte in ritardo, ho sonno e freddo ma l’aereo è mezzo vuoto e gli steward dai tratti del viso magrebini sono gentili; uno di loro mi chiede qualcosa e poi mi da un cuscino e una coperta. Mi metto comoda e mi sveglio solo per l’odore del cibo che arriva: mangio e tra il sonno e la stanchezza non so bene che lingua parlare con lo steward: sono un’italiana, su un volo francese, che sta andando in un Paese di lingua ufficiale portoghese. Dico: yes, merci e mi ricordo, trovandomi costretta a ripeterlo più volte, quant’è difficile pronunciare bene “de l’eau” in francese. Il volo è tranquillo, anche se sembra interminabile perché siamo stati fermi un’ora intera prima di decollare. Ho anche un po’ paura di perdere la coincidenza ma la stanchezza prevale e dormo ancora un po’. Arrivati a Casablanca abbiamo giusto il tempo di passare un altro controllo abbastanza inutile di sicurezza e proseguire spediti verso il gate che troviamo già la gente in fila per l’imbarco e tra questi anche Carolina e Matteo, il nostro coordinatore, che ci presenta anche Samuele, un altro cooperante che lavora per un’associazione con cui Engim collabora a Bissau.
Saliamo di corsa sull’ennesimo aereo, è già sera, prendo un giornale in francese che non leggerò, cerco il mio posto e mi siedo: posto centrale, sedili strettissimi, corridoio ancora più stretto, volo strapieno, aereo stracarico. Accanto a me dal lato finestrino un ragazzo di colore che non mi guarda mai, dall’altro un francese tutto sorrisi e cordialità che subito mi dà da parlare in francese – non so perché - visto che lui è un guinense o forse del Ghana, non ricordo, che lavora per l’Onu e sa benissimo che sono italiana dato che a un certo punto, quando arriva la cena, mi sveglia e poi mi canticchia “lasciatemi cantare con la chitarra in mano”. L’aereo è così stretto e caotico e pieno di gente che anche andare alla toilette diventa un’impresa. Un ragazzone biondo che non sa da che parte mettersi per farmi passare, le hostess col carrello del cibo e altra gente sparsa mi fanno quasi desistere, ma alla fine arrivo e il mio vicino di posto che mi parla francese e mi canta Toto Cutugno è così gentile da insistere per farmi entrare per prima. Quando torno a sedermi, consapevole di non poter più stendere le gambe o cambiare posizione di più di 5 gradi fino all’atterraggio – e pensare che sono bassa – anche il mio vicino del lato finestrino mi sorride e mi dice qualche parola. La cordialità della gente mi fa sempre un bell’effetto, posso anche sopportare un’altra ora o più, stipata in questo aereo stracarico.Guardo lo schermo che ci mostra la posizione dell’aereo sulla cartina e il mondo appare al contrario, con la Spagna in basso e l’Africa in alto. Un po’ perplessa inizio a pensare che devo proprio adattarmi e cambiare prospettiva anche sulle piccole cose, a partire da subito. E mi riaddormento.
Arriviamo a Bissau in piena notte, sarà stata già l’una. Scendo dall’aereo e mi viene da sorridere: la pista è una distesa di terra, il nostro piccolo aereo è l’unico e l’aeroporto è una struttura piccolissima. Ma arriva persino la navetta a prenderci per farci fare un brevissimo tragitto, si riempie subito e il resto della gente va tranquillamente a piedi per quei pochi metri. C’è anche una macchina dentro alla pista.
Entriamo e l’unica cosa che voglio è andare a dormire – sono in piedi da quasi 24 ore – ma c’è ancora un foglio da compilare, il passaporto e il visto da far controllare e le valigie da prendere. Sbrighiamo le pratiche burocratiche e andiamo davanti al un piccolissimo rullo del ritiro bagagli attorno al quale stavano accalcate tantissime persone con altrettanti carrelli. Il rullo è talmente piccolo che da un lato dà sulla pista e sporgendosi un po’ si vedono facilmente i carrelli che arrivano coi due addetti che vi buttano sopra i bagagli. Chiedo a Matteo di poter mandare un messaggio ai miei per avvisare che sono arrivata – la mia scheda Tim è l’unica che non dà segni di vita – e ci mettiamo a guardare ed aspettare. La gente coi carrelli piano piano li riempie mentre i pochi bianchi sono gli unici che sembra restino ancora lì a guardare il rullo e a sporgersi nella speranza di vedere arrivare le proprie cose. Ad un certo punto l’addetto da fuori dice: Acabou, amanhà! Per oggi abbiamo finito, tornate domani. Con una faccia tra l’incredulo, lo sconvolto e il divertito chiedo conferma attorno a me e mi dicono che sì, può succedere, l’aereo era troppo carico e le valigie arriveranno nei prossimi giorni. Siamo in Africa, bisogna abituarsi a nuovi tempi, nuovi ritmi. Bene, mi sembra un buon inizio, un’altra delle stranezze da raccontare di questa giornata infinita. Per fortuna nello zaino ho uno spazzolino, un cambio e altre cose che alla luce dei fatti mi saranno molto utili finché le valigie non arriveranno. Usciamo dall’aeroporto e andiamo alla macchina del Padre che ci aspetta. Mi dispiace molto di essere arrivata di notte e di non aver vissuto quella sensazione di stupore e scoperta nel vedere per la prima volta dall’auto i paesaggi e la strada che mi porta verso casa. Ma lo farò domani. Il padre ci indica già dei luoghi, case, palazzi, posti ma non riesco a vedere nulla perché ho gli occhi troppo stanchi e non c’è luce per strada.
Arriviamo al Cifap, indicano la mia stanza –enorme- metto le lenzuola, entro dentro la zanzariera, poggio la testa sul cuscino e crollo, mi addormento in Africa!
Antonella Alessi, Volontaria in Guinea Bissau con il Servizio Civile Volontario
Leave a comment
Devi essere connesso per inviare un commento.