Volontari
12Nov/180

Un’esperienza in baraccopoli con i frati francescani

In occasione di una missione, ho avuto la possibilità di fermarmi nel convento dei francescani a Nairobi e di fare una visita Deep Sea, lo slum dove i frati operano. Questa baraccopoli dista più o meno venti minuti a piedi dal convento. Nella mia esperienza a Deep Sea -perché così mi piace chiamarla- sono stata inizialmente accompagnata da Anastasia, una gentilissima signora che vive qui e che collabora con padre Ettore, il francescano che in tutti i sensi “porta avanti la baracca”. Successivamente, ci ha raggiunto Elisabeth, poiché Anastasia mi ha detto che era meglio non girare da sola con me per lo slum, è preferibile essere almeno in due. L’entrata della baraccopoli si presenta come una discarica a cielo aperto, sporcizia e rifiuti di ogni genere ovunque. C’è anche un palazzo in costruzione dalla parte opposta e tutti i calcinacci vengono buttati qui. La cosa strana è che non c’è un cattivo odore di spazzatura, piuttosto di alcool e marijuana. Solo avvicinandosi alla montagna di rifiuti si sente odore di immondizia e plastica bruciata. Tutte le persone che ci sono venute incontro per salutarmi all'entrata della baraccopoli avevano dei problemi: chi non si reggeva in piedi ed era chiaramente sofferente, chi aveva il braccio completamente sporco di sangue e camminava ciondolando, chi era fortemente ubriaco e chi aveva un forte odore di erba e gli occhi rossi rossi.

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Anastasia ha allontanato queste persone con sapienza. Sapeva esattamente come comportarsi. Qui ci ha raggiunto anche Elisabeth e abbiamo iniziato il nostro giro. Le strade della baraccopoli non sono asfaltate e ci sono talmente tanti rifiuti che sembra che la strada sia impastata con i rifiuti stessi. Addentrarsi negli stretti cunicoli dello slum non è semplice: i passaggi sono in pendenza, e al centro c’è un canale di scolo. Le casette sono quasi tutte interamente in lamiera arrugginita e legno, pochissime in mattoni. Camminando, ogni tanto si intravede qualche rubinetto qua e là: gli abitanti dello slum hanno escogitato un sistema per utilizzare l’acqua del comune, un metodo in realtà illegale, ma di cui, a quanto pare, il governo è perfettamente a conoscenza, avendo messo anche una tassa di 100 kes a famiglia (poco meno di un euro al mese).
La maggior parte delle persone che vive nello slum sono kenyote, provenendo da diverse aree del paese, quindi c’è una convivenza di etnie diverse, ma ci sono anche rifugiati politici, soprattutto congolesi. Questione complessa quella del censimento: rifugiati a parte, molte persone che abitano nello slum non esistono, perché non sono mai state registrate all'anagrafe o non hanno certificati di nascita. Quando muore qualcuno, capita di non sapere chi sia.
Ci sono tantissime mamme con più figli e da padri diversi che non riescono a gestire le proprie famiglie perché alcoliste, malate o completamente assenti. I bambini spesso percepiscono la scuola come una prigione poiché lì vengono maltrattati e picchiati.
Qui a Deep Sea, difficilmente la popolazione ha accesso a cure sanitarie, anche perché i costi sono piuttosto elevati. Tragica è la situazione per i malati terminali, in quanto non hanno un luogo che possa prendersi cura di loro. Questo significa che spesso si ritrovano riversati in strada, a sniffare colla per non sentire il dolore né la fame, senza che qualcuno si curi di loro. Padre Ettore ha acquistato due casette, una in lamiera e una in mattoni, per accogliere i malati più bisognosi. Questi sono affiancati da volontari o da personale qualificato, ragazzi dello slum a cui padre Ettore ha fatto frequentare un corso professionale per diventare badanti. Elisabeth e Anastasia mi dicono che la maggior parte delle donne che vivono qui sono domestiche; gli uomini sono perlopiù operai. Molte donne lavorano “a chiamata” ovvero, se per esempio qualcuno ha bisogno di lavare molti vestiti, chiama una di loro per farsi aiutare. Gli uomini invece, lavorano come operai, soprattutto per gli indiani e “per i ricchi” in generale. Ci sono anche tanti samba boys, una sorta di giardinieri. La maggior parte delle persone che vivono qui, fanno piccoli lavoretti come questi, ma molti chiedono anche le elemosina.

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In questo quadro così complesso, sono diverse le realtà che operano a Deep Sea, ma sembra che non ci sia molta coordinazione tra i diversi attori presenti. I francescani stanno facendo tantissimo per questa realtà, investendo soprattutto sulle persone: quello su cui vuole puntare padre Ettore è lo sviluppo di competenze, creare persone provenienti dallo slum, qualificate: va bene fare attività, laboratori, intrattenimento, ma servono persone che siano in grado di fare dei conti, di usare internet e il computer, di scrivere verbali, di muoversi e comunicare, insomma, di portare avanti un’azienda. Creare non soltanto dipendenti ma anche futuri imprenditori.
Per quanto riguarda le attività più generiche, la casa dei francescani è anche a disposizione dei membri dello slum, per fare feste ai bambini, incontri e così via. Uno degli aspetti che caratterizza i francescani, è la condivisione, quella vera, il mangiare insieme, l’aiutarsi a vicenda, l’uguaglianza. Tra le altre iniziative dei francescani, c’è la registrazione governativa dell’organizzazione “Deep Sea Simama” (Deep Sea, alzati!) formata da circa venti volontari rimborsati attraverso le offerte dei francescani:  si tratta soprattutto donne, che aiutano i frati in diverse questioni, focalizzandosi su tutto ciò che riguarda i quaranta bambini ai quali viene garantita la frequenza scolastica, grazie alle offerte dei parrocchiani. Le donne di questa organizzazione, segnano i bambini a scuola, fanno i loro certificati di nascita per chi non li ha, mantengono i rapporti con i genitori, fanno la spesa per questi bambini: oltre alle uniformi, ognuno deve acquistare cibo e saponi, poiché loro lavano tutto da soli, anche vestiti e piatti. Inoltre, i volontari si occupano di mantenere i contatti per l’acquisto delle case e aiutano nella ricerca delle abitazioni, per chi ne ha bisogno. Una grande famiglia allargata, dove ognuno fa quello che può e contribuisce con i propri mezzi e capacità.

Giulia Marchetti, Volontaria Servizio Civile in Kenya

 

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