Volontari
30Nov/190

Tra Lamiere e Fango

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Guardo la mamma mentre lava il bucato e un raggio mi colpisce il viso, costringendomi a socchiudere gli occhi ancora addormentati. Mi ha sempre affascinato la sua capacità di mantenere la schiena così retta, anche quando, piegata per ore e ore, cerca di togliere la polvere e il fango dai vestiti miei e dei miei fratelli.

Mi chiamo Maina e vivo a Deep Sea. Deep Sea è uno dei tanti slum (baraccopoli) di Nairobi. Io non conosco tante cose del mondo, ad essere sincero neppure di Nairobi, ma ho sentito dire da alcuni ragazzi più grandi che la capitale del Kenya conta un’infinità di luoghi come questo, che raccolgono circa il 60% della popolazione. Non so bene cosa significhi, ma mi piace pensare di non essere solo in questa realtà.


Deep Sea è unico nella sua natura, o forse dico così perché è la mia casa. A qualcuno potrebbe sembrare strano chiamare “casa” un ammasso di lamiere e fango, ma io sono nato e cresciuto qui e non riuscirei neanche ad immaginare un luogo diverso. Se dovessi descriverlo con un’espressione direi “intimità condivisa”. Pare quasi contraddittorio, lo so! Ma a Deep Sea, le baracche, ammassate, su più livelli, come libri di un’antica biblioteca terremotata, ci costringono a condividere ogni momento della giornata. Dove non te l’aspetti, dove non c’è spazio neanche per sedersi e riposare un attimo, ecco che invece sorge l’ennesima casa di latta, con i suoi nove, dieci inquilini.
Affacciandomi all’interno, vengo avvolto da un buio travolgente e da un caldo soffocante. Ma la vista si abitua in fretta, ed ecco, una madre, qualche anziano, dei bambini, un neonato avvolto in fasce che giace sull’unico materasso, c’è anche qualcuno malato. Poi oggetti vari: vestiti ammucchiati in un angolo, pentole, ciabatte, qualche telo appeso che funge da separatorio, un tavolino, un materasso, e persino una TV, che però non funziona. Tutti insieme. Tutto insieme. Una stanza. Pochi metri quadrati.
Le lamiere rimangono tutto il giorno ad osservarsi, una di fronte all’altra, così vicine che sembrano guardarsi allo specchio; alcune si accarezzano, sfiorandosi leggermente; altre invece sono strette in un abbraccio quasi soffocante. Non che mi piaccia osservarne la disposizione, ma per noi bambini diventa quasi una necessità conoscere la posizione di ogni singolo pezzo di latta e prestargli la giusta attenzione: una svista potrebbe causarci chissà quale ferita e mandarci al pronto soccorso. Tra una lamiera e l’altra, passano stretti vicoli, affollati di persone, spazzatura, secchi, sacchi, cartoni…a rendere il passaggio ancora più complesso, ecco i canali, che irriverenti governano quel poco spazio che rimane per spostarsi. Non sono limpidi né freschi. Sono fogne a cielo aperto, nelle quali scorre tutto ciò che non può più essere utilizzato in alcun modo.
A prima vista, la mia casa sembra un dipinto di miseria e lerciume, ma in questa realtà così cruda, ecco fare la loro comparsa decine e decine di panni stesi ad asciugare. Tra lo sporco più assoluto, svolazza un lenzuolo, limpido e profumato, che sembra una nota dolce in una melodia distorta. Tutto è polvere, fango, fogna, ma quei panni, alla cui pulizia le nostre mamme dedicano le loro intere giornate, mi ricordano che non tutto è perduto e mi danno sollievo.
Durante l’estate, le lamiere diventano poi roventi per il caldo sole equatoriale. Il caldo sembra invadere il piccolo spazio delle nostre case, conquistandole come un guerriero armato. L’aria diventa pesante, respirare diventa difficile e ogni leggera movenza è caratterizzata da affaticamento e lentezza.

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Durante la stagione delle piogge invece la vita cambia. Il vento si alza, dapprima una leggera brezza, diventa velocemente sempre più impetuoso, e noi bambini sappiamo che è il momento di rientrare. Non importa tornare a casa o fermarsi presso la famiglia di un amico, l’importante è trovare un riparo. Le prime gocce ci bagnano il viso mentre ancora corriamo per i vicoli, cercando di evitare le lamiere e di non cadere dentro al canale. Sembra quasi un gioco di sopravvivenza, ma per noi, è la quotidianità. Quando con il fiato corto per la fatica, riusciamo a intrufolarci in uno spazio protetto, ecco che inizia il concerto. Gocce, dalle più disparate forme e dimensioni, si abbattono sui tetti di latta, dando vita a una melodia diversa ogni giorno. Il rumore è tale che anche parlare risulta difficile, ecco perché quando piove mi piace chiudere gli occhi e lasciar correre l’immaginazione. Ma anche la mia immaginazione rimane spesso limitata.
Fuori da Deep Sea, del quale conosco ogni singolo angolo, non ho mai visto nulla, se non il quartiere che lo circonda e il villaggio di mamma, dove ci rechiamo per le vacanze di Natale. Deep Sea è delimitato da alte mura, le mura delle ville di chissà quale funzionario di chissà quale istituzione, e con l’immaginazione mi piace scavalcare quelle mura e andare ad esplorare il loro interno. Mamma dice sempre che lì ci vivono i “ricchi”, indiani o kenyoti che siano non importa, ciò che mamma sottolinea sempre è che sono “i ricchi”. Sebbene non conosca cosa nascondono quelle pareti, saprei perfettamente scavalcare quei mattoni impilati e coperti da filo spinato. Li ho osservati così tante volte che ora saprei dove mettere i miei agili piedi scalzi, per poter superare l’ostacolo indenne. Parklands, il quartiere dove sorge il mio slum, è un quartiere ricco, pieno di ville sfarzose e imponenti edifici. E così, Deep Sea pare una buccia marcia buttata in una succosa macedonia: non c’entra nulla!

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Tutto intorno, ville e ricchezza, macchine lussuose e i “ricchi” che ci intravedono solo dai loro finestrini, quando sfrecciano vicino alle nostre case. Tutte quelle ville paiono perfette, così bianche, pulite, ordinate, da sembrare quasi finte. In effetti, non vediamo mai nessuno, se non il guardiano che occupa l’unico spiraglio lasciato dalle alte mura con il filo spinato. E mi sembra che, seppur per un motivo opposto, anche dietro a quelle mura, ci sia qualcosa che non va. Forse troppa paura, troppa insicurezza, forse un forte senso di colpa che spinge i nostri “vicini di casa” a chiudersi in un mondo che non ha nulla a che vedere con la realtà che li circonda, a chiudere gli occhi per non dover provare vergogna davanti a tanta miseria.
Maddalena Righi, Volontaria in Servizio Civile in Kenya

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