Ho sentito parlare per la prima volta di Servizio Civile all’università. Frequentavo il corso di laurea in Sviluppo e Cooperazione Internazionale a Bologna, ero curiosa e in cerca di nuove prospettive. Ci hanno parlato della nascita del progetto come anche delle modifiche apportate nel 2014, che permettevano ai volontari di partire per l’estero per lavorare con organizzazioni internazionali di vario genere. Per noi che studiavamo diritto internazionale, politiche economiche e sociologia, un percorso del genere sembrava rappresentare la naturale continuazione di quanto stavamo apprendendo.
Ci sono voluti anni, però, prima che mi decidessi a fare domanda. Questo per tutta una serie di fattori: la volontà di svolgere prima una magistrale, che mi ha condotta verso le sfumature d’interpretazione tipiche dell’antropologia, il trasferimento a Torino dove continuo a vivere tutt’oggi, la pandemia Covid-19 che ha paralizzato attività e scambi specialmente a livello internazionale.
Nel mentre mi sono documentata, ho scritto delle tesi. Mi sono appassionata a nuovi argomenti, sempre più consapevole che la nostra è una realtà stratificata e interconnessa.
Uno degli aspetti che mi sono ritrovata ad approfondire sono state la medicina tradizionale e il legame tra cura fisica e spirituale. Nel primo caso ciò è avvenuto tramite una ricerca di gruppo all’università, nell’ambito del corso di Antropologia dei Beni Culturali. Io e alcuni miei compagni abbiamo fatto ricerca sui settimini, curatori tradizionali presenti in Piemonte caratterizzati da una nascita o guarigione avvenuta in circostanze eccezionali, come anche da un’ampio conoscenza di piante medicinali locali. Un’altra esperienza formativa in tema l’ho avuta nel corso di un tirocinio di due mesi in Tamil Nadu, nel corso della quale sono entrata in contatto con la naturopatia. Infine ho svolto anche un tirocinio aiutando a esaminare materiale relativo al progetto di ricerca “Le religioni in ospedale: integrare spiritualità e medicina nelle pratiche di cura”.
Ho deciso quindi di voler esplorare maggiormente queste tematiche nel momento in cui ho partecipato alle selezioni per il Servizio Civile Universale. Finalmente infatti sono riuscita a decidermi, non volevo assolutamente lasciarmi sfuggire la possibilità di vivere un’esperienza tanto forte e formativa. Questo non solo da un punto di vista professionale quanto anche, e forse più prettamente, personale. Ho quindi trovato un progetto che si sarebbe svolto a Juazeiro di Bahia, in un Centro di Terapie Naturali in cui venivano prodotti rimedi naturali e offerte terapie olistiche.
La partenza è avvenuta a fine agosto, dopo un’estenuante rincorsa che si è conclusa finalmente con l’ottenimento del visto di un anno. L’esperienza è stata travolgente. Non solo positiva, ma ciò che ha la capacità di farci crescere raramente non presenta difficoltà o situazioni di conflitto. Quello che so è che la ragazza che è partita dall’Italia in un qualunque giorno d’estate non assomiglia poi tanto a quella che è tornata. Un anno di caldo e di continue sfide, di calma straziante e di attività impreviste da gestire all’ultimo minuto. Un anno di una lingua che non era la mia, ma che lo è diventata in poche settimane. Un anno di dubbi, di emozioni da affrontare e accogliere, di amicizie che si costruiscono a poco a poco. Di grandi piccole conquiste e di sconfitte che però mi hanno concesso di avvicinarmi ad una consapevolezza maggiore del luogo in cui mi trovavo, delle dinamiche in cui ero immersa e delle persone con cui sono entrata in contatto.
Che posso dire? Nel mio bagaglio di rientro ho dovuto fare spazio per molte cose. Prima tra tutte un’immensa gratitudine. Nonostante le sfide che ha presentato, questa esperienza mi ha insegnato molto. Anzitutto ha rinforzato in me la convinzione che la dimensione della cura si articola in più dimensioni: quella fisica ma anche mentale come pure spirituale. Come persone siamo fatti di materia ma anche di energie sottili, sulle quali è anche opportuno lavorare per riuscire davvero ad arrivare al cuore dei disturbi che ci compromettono. Ci vuole ascolto, pazienza e la volontà di migliorare gradualmente, senza fretta.
Un’altra cosa che porto con me è la consapevolezza che si cade ogni giorno. Dall’alto delle proprie convinzioni, delle proprie idee fallaci e imperfette, dei propri bisogni disattesi, dalle insicurezze costruite come mura attorno alle nostre vulnerabilità. Cadere ci fa bene, ci demolisce per poi costringerci a ricostruire. Magari in maniera più flessibile e creativa, partendo dalle basi: la cura di sé stessi e delle relazioni con gli altri.
La pazienza occupa molto spazio in valigia, ma non per questo può venire lasciata indietro. Si tratta di uno strumento fondamentale, della volontà di dare tempo a un germoglio per far sì che si trasformi in albero. I progetti procedono per gradi, i frutti del lavoro svolto durante il servizio si vedono con il tempo. La potenzialità delle nostre azioni è chiara, molto meno lo sono i possibili risultati. Uno sbuffo di vento e cambia completamente la nostra percezione delle cose, il nostro sentire e le conseguenze possibili sul nostro operato. Ma è proprio questa la vera bellezza del nostro lavoro di volontari: il tempo che dedichiamo torna indietro a quelli che arrivano dopo di noi. Non va mai sprecato, ci conduce sempre verso nuovi orizzonti e possibilità.
Infine inutile dire che al luogo d’arrivo ci si affeziona. In tutte le sue più piccole imperfezioni. Al canto dei galli nel pollaio sotto la finestra, ben prima dell’alba. Al cielo che prende fuoco sul ponte di Juazeiro ogni singolo giorno prima di sparire nel fiume Sao Francisco. Alla polvere che invade le strade, gli edifici e i pensieri. Alla bellezza e al dolore costante che canta la caatinga osservandoti dai lati delle strade. Alle amicizie scanzonate e superficiali, persone che sanno che sei una novità ma che presto te ne andrai e si tengono a distanza. Ai segni viola delle ventose su schiene scure, chiare, rosse di sole. Alle erbe che possono venire solo colte la mattina e insaccate il pomeriggio. Alle merende a base di pane e burro e stanchezza. Ai semi di senape nelle orecchie e ai punti di riflessologia presenti su tutto il corpo. Ai bambini che ti saltano sulla schiena e che ti chiedono di leggere per loro, a te che della loro lingua sai molto poco.
Tutto ciò che sei riuscito a fare è stato importante e al contempo per te rappresenta solo una parentesi. Un domani sarai già tornata e ti guarderai indietro nella speranza di scorgere delle orme familiari e un bel paesaggio. La verità è che avrai solo il pezzo di strada che avrai davanti e tanto peso sulle spalle, che ti avrà aiutata a crescere e che avrà aggiunto un tassello alla vita di persone che normalmente non avresti mai conosciuto. La verità è che hai appena piantato tanti semi, e alcuni li hai visti già sbocciare. Per il resto, serve sempre e solo tempo. Nel frattempo, gratidao.