Volontari
23Gen/140

La stramba logica che governa il mondo

Sabato 11 gennaio era il compleanno di Matteo, il nostro responsabile qui a Bissau. Abbiamo deciso di preparare un bel pranzetto, quindi siamo usciti di casa per andare al mercato e al porto per comprare un po’ di pesce. Ne abbiamo approfittato per vedere un po’ la città, che è piccola e sicura… tutto sommato è molto carina anche se sulle prime sembra tutto sgarrupato...

Ma non perdiamo il filo del discorso. Dunque, dopo aver fatto la spesa siamo tornati a casa e abbiamo cominciato a pulire il pesce e a cucinare tutto con tempistiche bibliche, dato che le fiamme del fornello sono debolissime. Per il pranzo Matteo ha invitato anche Fabio, un medico romano e simpatiscissimo che lavora qui a BBissau da n’ zacco de tempo e ggestisce n’ ospedale. Insomma, mentre aspettavamo che la brace si scaldasse a dovere, fra una birra e l’altra, Fabio inizia a chiedere cosa facciamo nella vita e chiacchiere di questo tipo. Mi chiede di raccontargli di Timor, dei folli Bahai, delle suore e del mio lavoro di ricerca [nda: da gennaio a maggio 2013 sono stata a Timor Est, come volontaria, presso una comunità di suore FMA che si trova a Dili, la capitale di Timor Est. Qui ho potuto svolgere una ricerca per poter scrivere la mia tesi di Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnolinguistica]. Mi dice che qualche tempo fa nel suo ospedale ha fatto capolino José Ramos-Horta. Io mi metto subito in modalità scodinzolìo e gli faccio presente che sono consapevole del fatto che Ramos-Horta lavora qui <occhi a cuore> [nda: per sapere chi è Ramos-Horta, rimando a questo e questo link]. E lui subito mi dice che cercherà di farmi avere un appuntamento se non proprio con Ramos-Horta, almeno con il suo segretario, Yasmin Cabral, guineense.

Detto, fatto.

Martedì mattina, mentre stavamo andando verso Bafatá per vedere il progetto di Mani Tese ed Engim nelle carceri, Fabio mi ha telefonato per dirmi che era riuscito a organizzare l’incontro con Yasmin Cabral, al quale avrei dovuto consegnare una lettera scritta da me, che sarebbe poi stata recapitata a Ramos-Horta. Del carcere vi racconto un’altra volta.

Mercoledì mattina mi metto a scrivere a non finire in tetun, scrivendo del mio viaggio di Timor, della mia ricerca, della mia tesi, dei miei progetti, della nostalgia che ho di Timor e altre cose che potrebbero sembrare paraculate ma che sono tutte verissime. Pranzo veloce per poi andare a prepararmi, mettermi il vestito più carino che ho, pettinarmi e finire di ricopiare la lettera.

Usciamo di casa con qualche minuto di ritardo; ovviamente avevano tutti deciso di uscire di casa in macchina in quel momento a Bissau, dunque c’era il traffico dell’inferno e ci abbiamo messo un sacco di tempo ad arrivare al palazzo delle Nazioni Unite. Ma ce l’abbiamo fatta.

Matteo e io siamo entrati, abbiamo detto alle guardie che avevamo un incontro con Yasmin e ci hanno accompagnati al quarto piano dell’edificio. Yasmin è un bel tipo alto e sorridente e conosce Matteo. Ci ha accompagnati al secondo piano, da un’altra segretaria. Era chiaro che José Ramos-Horta fosse nell’ufficio, a un passo da noi, ma ho solo consegnato la lettera e ce ne siamo andati. Non me la sentivo di vederlo in quel momento – non ero pronta – e poi gli avevo scritto la lettera e volevo che avesse il tempo di leggerla, anche se il rischio di non trovarlo più era altissimo. Fuori dall’ufficio di José Ramos-Horta c’era una guardia timorese e un po’ mi sono sentita a casa. E un po’ mi sono pentita di non aver aspettato che lui mi ricevesse. Ma in realtà, sotto sotto, volevo vedere se mi avrebbe ricontattata lui, perché volevo che fosse lui – eventualmente – a decidere di incontrarmi: non volevo mettermi coi picchetti di fronte al suo ufficio.

Siamo usciti dal palazzo, ci siamo rimessi in macchina e siamo andati in centro, verso il supermercato Darling, una di quelle meraviglie che solo il terzo mondo può proporre.

 

Fra gli articoli più venduti al supermercato Darling, le penne Obama (Titolo della foto: Carolina e personalità illustri. Foto di Antonella Alessi. NB: la mia faccia ha deciso di mangiarsi i miei occhi).

Elena ha scelto con estrema cura e attenzione un profumo, un deodorante e uno shampoo+balsamo. Per un momento ho pensato che non saremmo più usciti dal supermercato Darling. Finalmente ci dirigiamo verso le casse, io avevo un secchio per il mocio in una mano e una bottiglia di olio di oliva Gallo da 5 litri nell’altra. La televisione trasmetteva i riassunti di chissà quali partite che Matteo fissava con la bava alla bocca mentre Elena sceglieva con minuzia le chewing-gum più adatte per lei. A un certo punto il mio telefono squilla; riesco a prenderlo dalla tasca, nonostante avessi tutte le mani impegnate e rispondo

Carolina: – Alô

JRH: – Estou. <è lui. È la SUA voce profonda, quella che ho già sentito mille volte nei film e nei documentari che ho visto e rivisto centinaia di volte> É a senhora Carolina?

C: Sim… Carolina, sim.

Bisbiglio e occhi impanicati: “Matteo, tieni l’olio che c’ho Ramos-Horta al telefono”.

JRH: É José Ramos-Horta.

Esco dal supermercato e ho come l’impressione di camminare nell’aria. Sudo, sbrodolo, scodinzolo, sto per farmi la pipì addosso. José Ramos-Horta mi ha chiamata dal suo telefono personale. Cioé, tipo, neanche la Segretaria, un amico, un collaboratore. L-U-I. Dal suo numero personale.

C: Sim, reconheci a voz. É uma honra para mim falar com o Senhor Doutor.

JRH: Recebi agora a sua carta. Escreve muito bem tetun.

Dunque, riassumiamo: Ramos-Horta mi ha chiamata al telefono per dirmi che scrivo molto bene tetun [nda: lingua nazionale e lingua franca di Timor Est]. No, scusa, DAVVERO? Soprattutto, calcolando i tempi, ha letto la mia lettera d’un fiato e mi ha subito richiamata: oddio che dddolcee.

Insomma, continuiamo a tubare per altri cinque minuti buoni: lui mi chiede cosa ci faccio in Guinea, io balbetto, dico cose, spiego del mio lavoro qui, gli dico di Timor, gli rispiego ciò che lui ha appena letto nella lettera e saggiamente mi interrompe chiedendomi se mi va di vederci nel suo ufficio domani alle otto e mezza del mattino.

- Ma già domani? <incredula>

- Anche un altro giorno, se preferisce.

- NONO, domani va benissimo. Allora domani alle 8,30 sono da lei (cioè domani alle 7 sono già fuori dal tuo palazzotto con la coda alta e scodinzolante e i picchetti dell’amore).

- Ma lei è una suora?

- NONO. PER NIENTE.

- Ah perché conosco molte suore italiane qui in Guinea.

- Eh, sì, sono dappertutto.

- <ride>. Allora la aspetto domani.

- Sì, certo. A domani e grazie, grazie davvero.

Le giornate del 15 e del 16 gennaio sono trascorse in un costante stato di torpore benefico, intervallato da momenti di estrema euforia e/o massima ansia. Quest’ultima, in particolare, ha raggiunto il suo apice alle 7 del 16 gennaio, quando la sveglia è suonata e mi sono catapultata fuori dal letto con la fortissima necessità di fare tantissima cacca.

Vestito a pois (quello bianco con i pois giganti marroni, violetti e bordeaux, per intenderci), capelli incredibilmente fighissimi, sciolti e boccolosi, orecchini pendenti dello stesso violetto del vestito, sandaletti marroni. Gambe lisce come la seta (risultato di una lunghissima seduta pilifera avvenuta durante il pomeriggio precedente) anche se del colore dei cadaveri.

Pronti? Via.

Non abbiamo la macchina perché ieri sera Matteo l’ha dovuta lasciare a Mani Tese, dunque dobbiamo andare in moto; in moto fa freddino, per la gioia dei miei già scombussolati intestini.

Arriviamo alla sede. Mi stanno aspettando. Mi accompagnano fuori dal palazzotto, dove vengo accolta dalla guardia timorina che avevo visto il giorno prima fuori dall’ufficio di Ramos-Horta, che mi saluta in tetun. Da questo momento la mia faccia subisce una paresi che permane tutt’ora: sorriso stampato e occhio sognante. Mi dice che parlo bene tetun e che è stupito che una malai [nda: "straniera". O meglio, non timorese] parli così bene il tetun. Quanto hai vissuto a Timor? Solo quattro mesi? Ma davvero? Ma guarda che lo parli bene per davvero.

E arriviamo al secondo piano. Mi apre la porta e José Ramos-Horta si alza dalla sedia dietro la sua scrivania, sorride, mi viene incontro e mi stringe la mano.

Se dovessi morire, sappiate che sono stata felice.

Sappiate che la mia mano destra ha toccato la mano di José Ramos-Horta.

Sappiate che il cuore mi è saltato in gola e credo non sia più tornato nella sua sede originaria.

Mi chiede di accomodarmi lì in fondo, dove ci sono una cosa tipo quattro divani giganteschi e stupendi, così per chiacchierare in modo meno formale. Ci sediamo e lui ha quella sua camicia azzurrina a righine sottilissime bianche con il collo alla coreana, stirata addosso così come la giacca in cotone blu con gli alamari.

Parliamo di Timor, che c’è in corso un processo di rinnovamento politico al quale lui con Mari Alkatiri e Xanana prenderà parte, introducendo nuovi politici all’opinione pubblica, perché non è giusto che sempre le stesse persone governino un Paese per 30 o 40 anni, come succede altrove.

Sì, tipo in Italia.

No, pensavo ad altre realtà – mi dice sorridendo – tutto sommato in Italia si sta bene. A me piace tanto l’Italia, sa? Ci vado sempre molto volentieri. Ma quindi questo suo lavoro di tesi?

Eh, guardi, se vuole glielo presento in sintesi. Ho voluto iniziare con una presentazione ampia, dato che in Italia la realtà timorese non è molto conosciuta <lui annuisce>; allora ho pensato di iniziare a spiegare la parola maubere, per presentare i significati che ha e ha avuto, a seconda del contesto storico e sociale di riferimento. E poi, soprattutto, ho spiegato che l’ha inventata lei questa parola, così come viene intesa oggi.

Sorride e mi racconta la storia della parola maubere, la prima parola che ho cercato di capire fin dal mio arrivo a Timor Est. Mi sembra quasi che un cerchio si chiuda o, più precisamente, che la spirale di Timor mi stia travolgendo un’altra volta, che non mi voglia lasciare andare. E io mi lascio prendere, mentre ascolto José Ramos-Horta che mi racconta la Storia della parola maubere.

“Nel giornale della diocesi, gestito da Padre Martinho da Costa Lopes, il giornale Seara, io avevo scritto un pezzo intitolato “Mau Bere, Meu Irmão”, ma in quel tempo la censura della PIDE [polizia portoghese] era fortissima e furono ritirate tutte le copie del giornale, a causa di quel pezzo. Io avevo 24 anni e mi ricordo bene che l’articolo sul giornale non uscì come l’avevo scritto io, ma Martinho da Costa Lopes aveva fatto un’operazione di editing molto pesante ma, nonostante questo, l’articolo fu ritirato.

E poi è successo che l’anno scorso qualcuno in internet ha messo il testo originale, del primo testo che io avevo scritto. Non so nemmeno come abbiano fatto a recuperarlo, ma è proprio quel testo lì, quello che ho scritto io”.

Stavo prendendo appunti ma mi sono interrotta, ho alzato gli occhi e mi sono resa conto – finalmente – di dove fossi e cosa stessi facendo; l’ho guardato negli occhi ed ero proprio io a guardarlo e a sentire la sua voce e a guardare i suoi gesti, ad ascoltarlo.

Mau Bere, Meu Irmão, LEVANTA-TE!

Mau Bere, meu irmão,

Hoje, neste dia, decidi escrever para ti.

Hoje é domingo. Todas as pessoas estão em casa ou na igreja, a fazer o sinal da cruz enquanto confessam os seus pecados, pecado, profusamente. Todos estão no campo ou a beira mar. Eu estou aqui.

E estou a pensar em ti, Mau Bere, meu irmão.

Na hora do jantar, senti fome. Mas não saí para comer. Fiquei aqui a pensar em ti. Imaginando pelo que passas a cada dia, cada hora e cada minuto. FOME. Tenho sorte, porque consegui aldrabar o meu estômago com mandioca e milho. Não arroz, porque não há nenhum arroz. E tu que nunca comeste mesmo arroz. O arroz que fizeste com o teu próprio suor é para os outros. Tu vendes aos chineses que te enganam com as balanças, que te enganam com o tabaco, vinho e outros pequenos itens.
Mau Bere, meu irmão, eu tenho pena de ti. Porque foste enganado e ninguém te defendeu.
Mau Bere, tu que mastigas folhas de bétel, que vestes trapos, trapos herdados pelos teus pais que já morreram, que fumavam folhas de milho sorridentes com um sorriso vermelho, por causa do betel, sangue e rebelião.

Mau Bere, levanta-te, caminha comigo.

Vem, Mau Bere.

Não durmas mais. Agora é a hora de acordares. O sol já nasceu. A luz do sol também brilha para ti. Mas nada mudou. Hoje, assim como ontem. Amanhã será o mesmo. Os teus trapos. Os teus Betéls. O teu sorriso vermelho.

Maubere, meu irmão, o que posso fazer por ti? Eu estou contigo. Na luta para manter vivo eu estarei ao teu lado. Estou enjoado. Enjoado de tudo e de todos. Vou beber. Para aliviar a minha repugnância.
Mau Bere, meu irmão, LEVANTA-TE!

O Teu Irmão.

Io continuo con la mia paresi e la mia pace dei sensi. Ho anche quasi smesso di ringhiare e VI VOGLIO BENE.

[nda: la prima versione (ancora più emotiva) di questo articolo si può leggere a questo link. Prometto che la prossima volta parlerò di Guinea Bissau in senso stretto, ma quest'incontro è stato troppo coinvolgente e mi sono sentita di condividerlo anche qui]

Carolina Boldoni, Volontaria in Guinea Bissau con il Servizio Volontario Europeo

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