Volontari
13Ott/130

Cinquanta sfumature di “Branku” VS Le ragioni del “Patin”

“L'uomo è nato libero, ma dovunque è in catene”

Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto Sociale

La passeggiata per la periferia di Bissau è scandita da due parole: “Branku” e “Patin”.

Branku” siamo noi, i bianchi. I bambini lo urlano fino allo spasmo, i ragazzini lo accompagnano con uno sguardo furbetto di chi vuole chiederti qualcosa, le donne al mercato ti cercano con questa parola per vendere i loro prodotti, gli uomini nelle officine, nei piccoli cantieri o seduti fuori casa. Ti chiamano a volte, sembra, solo per spezzare la noia con qualcosa di nuovo.

Ė strano trovarsi in un mondo ribaltato...

Un anno fa o poco più, giravo in territorio veneziano con ghanesi e ivoriani fuggiti dallo sfruttamento nei campi del sud Italia o con le esagitate ragazze nigeriane che avevano lasciato la strada. Cercavamo insieme casa, lavoro, dignità e normalità. E si ricadeva sempre nel solito ritornello...in coda dal medico, sul pianerottolo in condominio, per strada...la frasetta razzista scappa sempre, l'occhiata storta, il pregiudizio...c'è crisi, c'è paura, è una lotta tra poveri, e il “nero”, lo “straniero”, il “diverso” è tra i primi a farne le spese. Così vanno le cose, lo sappiamo.

Mi veniva da sbottare, ma, se non si incazza l'interessato, che diritto ho di cedere io? Mi sono sempre chiesto come ci si senta, quando ne hai passate di tutti i colori per lasciarti alle spalle guerra o fame, e invece, nel momento in cui meriteresti un po' di tranquillità, devi continuare a correre, dimostrare ogni giorno che sei “buono”, fare il triplo della fatica per fare qualsiasi cosa, sentirti spesso accusato per cose che non hai fatto. Ci provo, ma è impossibile capire se non lo vivi.

Poi ti ritrovi in un quartiere di periferia di un piccolo staterello africano e qui, come si dice amichevolmente dalle mie parti, “il negro sei tu!”. Non credo proprio sia come essere un africano nel nostro paese, ma la sensazione di essere percepito come diverso penso sia simile. Se ci si muove a piedi o in bici, se ci si addentra in quello spettacolo sociale che sono gli agglomerati di casupole limitati delle poche strade asfaltate, se si va al mercato, se si va a giocare a calcio coi ragazzi in campi improponibili, se si battono quei luoghi sporchi, decadenti -ma veri- spesso e volentieri l'unico bianco sei tu.

Mi ha sempre fatto ridere trovarmi in queste situazioni, ma qui, in Guinea Bissau, percepisco qualcosa di diverso.

“Branku” è infatti spesso seguito da “Patin”.

Patin” è offrimi, regalami, dammi. Cosa? Beh, quasi tutto? Le scarpe, la maglietta, i pantaloni, un succo, dei biscotti, gli occhiali, la palla, la bicicletta, etc. Il “Patin” non ha distinzioni di età e viene utilizzato dal bambino come dall'adulto, è abbastanza una costante.

Come reagisco? Sorrido, cerco di fare dell'ironia, cerco di spiegare che non sono il bianco ricco che pensano. Ma molti mi fanno notare che la teoria non regge, l'assioma è che il bianco ha i soldi. Io dico che sono un bianco senza soldi, ma loro non ci credono, e hanno ragione. In Italia magari sono uno che ha pochi soldi, ma qui sono uno coi soldi.

A volte ho meno voglia e faccio finta di non sentirli -essere al centro dell'attenzione è divertente fino a un certo punto!- e a volte li guardo un po' male e magari li saluto con lo sguardo duro, giusto per fargli notare che mi han chiesto la bici -ma poi ci credono veramente?- ancor prima di dirmi “bomdia” (buongiorno). Passa il tempo, molte cose di questa terra che sono nuove diventano normali, quotidiane...le digerisci, le assorbi, non te ne rendi più conto. Ma quando incontro il “Patin” me lo porto dietro per un po', continuo a pensarci e a volte mi lascia addosso un po' di tristezza.

Ė la prima volta che mi trovo davanti a questo fenomeno. Non sono un esperto di povertà, ma ciò che mi rimane è una sensazione diversa dall'incontro con la marginalità e l'indigenza che ho avuto in Italia, o nelle zone più depresse dell'est Europa o dei Balcani, o in dispersi villaggetti mediorientali.

Mi chiedo se qui, in Guinea Bissau o in Africa -se di una sola Africa possiamo parlare- ci sia qualcosa di diverso. Mi chiedo, quindi, quante sfumature può avere un “Branku” qui.

Quanti tipi di bianchi ci sono e quanti possono essere percepiti dalla gente, se siamo tutti uguali nel simboleggiare soldi e potere: dal funzionario delle organizzazioni internazionali da 10.000 dollari al mese -tre anni abbondanti dello stipendio di un insegnante locale-, ai religiosi delle diverse congregazioni -una vita dedicata al prossimo in cui comunque ti ritrovi a gestire soldi, posti di lavoro, risorse-, dall'europeo che è qui per far soldi -non si sa ben come- a chi invece viene come volontario con pochi soldi e tanta buona volontà. E via così con tutto ciò che ci sta in mezzo.

Ok, siamo persone, persone diverse fra loro, anche nelle stesse “pseudocategorie”, ma quanto siamo uguali per la gente di questa terra? Quanto siamo parte di una categoria monolitica, come possono essere una categoria monolitica gli africani per noi in Italia?

Quali sono le ragioni del “Patin”? Di che povertà stiamo parlando se, dall'adulto al bambino, c'è questa ricerca morbosa di accaparrarsi qualcosa dal bianco che passa per strada, o all'apertura di un container o in qualsiasi altra situazione? Mi chiedo quanto profonda sia la povertà in questa terra e quanto una maglietta, un vestito, una palla o qualcosa da mangiare facciano la differenza.

Il bisogno c'è ed è evidente, ma mi chiedo se sotto non ci sia anche qualcos'altro.

Quanto il “dammi” vale in termini di dignità? Quanto è una richiesta dovuta e rabbiosa per quanto abbiamo combinato in passato? Quanto abbiamo insegnato noi questo modo di porsi, in una sorta di continuo assistenzialismo di cui magari siamo anche noi parte, ancora oggi, seppur involontariamente?

Non ho risposte. So solo che la normalità che si crea nel luogo in cui vivi e in cui lavori qui a Bissau, quella sensazione che le differenze non ci siano -e quando ci sono non sono altro che un'occasione di crescita e conoscenza- a volte scompare di fronte a qualcuno o qualcosa che ti ricorda che sei bianco in terra nera. Ma forse non è tanto un fatto di colore, ma una questione di possibilità, di rapporti di forza, di chi comanda chi, di servi e di padroni. Sappiamo che in Africa i problemi sono ancora tanti, tantissimi e che le varie indipendenze non hanno significato una concreta liberazione dal giogo bianco, anzi. Giogo concreto e materiale -sfruttamento che ancora impunemente persiste- ma anche giogo ideale, che sta ancora nella testa delle persone. Servi e padroni in un nuovo rapporto coloniale.

Quanto contempliamo queste dinamiche nei nostri interventi di sviluppo in questa terra? E' possibile e quanto vogliamo provare a cambiare questa tendenza?

Siamo veramente promotori di un autentico cambiamento?

Federico Maculan, Volontario in Guinea Bissau con il Servizio Volontario Europeo

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